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Vie de La Brochure
30 décembre 2017

De Rolo Díez à Sepúlveda

Storie Ribelli

Voici des années j'ai lu un roman de Rolo Díez, écrivain né en Argentine mais qui a dû fuir au Mexique. Aujourd'hui je voulais chercher sur internet où il en était, et même en tapant sur google en français "article sur Rolo Díez" je tombe sur un article italien d'Il Manifesto mais repris par un autre site car Il Manifesto est payant même pour les archives.

De ce pas, j'ai voulu vérifier si c'était toujours le cas. Je vais sur le site de ce journal et je tape "Vazquez Montalban" sur le moteur de recherche et là je découvre qu'à la mort de l'écrivain catalan Sepúlveda avait célébré son ami.

A tout hasard, je tape sur google les premiers mots de l'article et je tombe sur une référence qui n'est pas l'article lui-même mais un entretien avec Sepúlveda où cet article est évoqué.

Cet entretien évoque le livre de Sepúlveda qui vient de paraître en Italie où le Chilien raconte ses rencontres avec des rebelles et qui s'appelle Storie ribelli, Histoires de rebelles (où il a repris son article sur Vazquez Montalban).  Je n'ai pas trouvé la version en espagnol quant à la version française, elle viendra sans doute dans deux ou trois ans. Sans attendre, pour les connaisseur de l'italien je peux vous offrir l'introduction où en 1986 l'écrivain explique ses retrouvailles son passeport chilien.

De son côté Rolo Díez devra attendre 1993 pour retrouver un passeport argentin comme il l'explique lui aussi sur Il Manifesto le 7 septembre 2004. J-P Damaggio

 Il Corriere della sera

Introduction au livre ci-dessus

Era una bella mattina di giugno del 1986, ad Amburgo. Uscii dalla mia casa di Erichstrasse 4, a Sankt Pauli, il quartiere indomito che scendeva verso l’Elba, verso il porto, fra intricate viuzze di vecchie case sopravvissute alla guerra e condannate alla demolizione, ma abitate da giovani anarchici del movimento Okupa che avevano cura di tenerle in piedi. Mi piaceva stare in quel quartiere popolato da operai del porto e della fabbrica di birra Astra, da artigiani di mestieri condannati a estinguersi rapidamente, e da donne che esercitavano la prostituzione languendo nelle vetrine della Herbertstrasse, la strada chiusa ai minori di diciotto anni, o all’entrata di taverne come la Bierdeich, la «diga di birra», aperta ventiquattr’ore su ventiquattro accanto al portone di casa mia.

 Mi piaceva Sankt Pauli. Fra la gente era corsa voce che scrivevo, in diversi avevano letto un breve articolo che avevo pubblicato sulla «Hamburger Rundschau» e subito avevano associato la scrittura alla poesia. Così ero divenuto uno dei tanti personaggi del quartiere, der Dichter, il poeta, e quella mattina Anette, una ragazza dolce dagli occhi intensamente azzurri che era in attesa di qualche cliente, mi salutò con un caldo Moin Dichter, buongiorno poeta, in Platt, il vecchio dialetto che sapeva di naufragi e di fatiche.

 Quella mattina d’estate dovevo andare al consolato cileno per rinnovare il passaporto. Ero costretto a sbrigare questa odiosa formalità ogni tre mesi, perché il mio passaporto era marchiato con una lettera L: ben visibile sulla prima pagina, nel linguaggio criptico della dittatura di Pinochet, significava che con quel documento potevo andare ovunque nel mondo, tranne tornare in Cile. Era il mio marchio di appestato, di esiliato, di paria. Così, ogni tre mesi, entravo nel consolato cileno e dopo uno scambio d’insulti con gli impiegati uscivo col passaporto valido per altri tre mesi, diretto al commissariato centrale di polizia per rinnovare il permesso di soggiorno in qualità di esule e il permesso di lavoro.

 Nel 1986 la mia attività politica consisteva nell’appoggiare dall’esilio gli sforzi dei compagni del Mir, il Movimiento de Izquierda Revolucionaria, e del Fpmr, il Frente Patriótico Manuel Rodríguez, che lottavano contro la dittatura e non concedevano un giorno di pace a Pinochet. Collaboravo anche con la rivista «Análisis», il baluardo delle rivendicazioni democratiche, la fragile luce giornalistica che teneva in vita l’idea della libertà di stampa in Cile.

 Molti, troppi compagni del MIR e del Fpmr sono morti in combattimento. Anche la rivista «Análisis» ha pagato un prezzo altissimo. L’8 settembre di quell’anno, il giorno dopo l’attentato compiuto dai combattenti dell’Fpmr che per poco non aveva messo fine alla vita di Pinochet, gli scagnozzi del dittatore sequestrarono da casa Pepe Carrasco, editore internazionale di «Análisis», e lo assassinarono. Il 1986 fu un anno decisivo in Cile, dimostrò che il dittatore non era intoccabile e che la solidarietà degli oppositori in esilio era fortissima. Quella bella mattina di giugno uscii dalla metropolitana alla stazione di Dammtor e attraversando i giardini dell’università mi diressi all’Aussen Alster, la grande laguna formata dal fiume Alster, bordata di tigli frondosi e di case patrizie, molte delle quali ospitavano consolati.

 Era estate ad Amburgo, mentre in Cile cominciava l’inverno. Forse il freddo e i rapporti dei servizi di intelligence sull’attività sovversiva degli esuli avevano irritato le emorroidi a Pinochet che, in uno dei suoi tanti gesti di pura superbia vendicativa, aveva steso una lista di 86 cileni in esilio, sottoscritto compreso, e ci aveva privato tutti della nazionalità cilena.

 Quella mattina, al consolato, consegnai il passaporto spiegando che volevo rinnovarlo, mi stupii che tardassero tanto a restituirmelo, finché non mi si parò davanti un impiegato insieme a due gorilla della sicurezza. «Lei non ha diritto al passaporto cileno. Viste le sue attività sovversive e antipatriottiche le è stata ritirata la nazionalità. Può andare.»

 È dura la condizione di apolide. Mi ci vollero mesi a ottenere dall’Onu il passaporto azzurro degli apolidi, documento che alle frontiere nessun poliziotto conosce e che ti fa finire ultimo negli aeroporti. Apolide vuol dire essere doppiamente paria. Scrivo queste cose e mi torna in mente un uomo che ammiravo: Sergio Poblete, generale delle Forze Aeree cilene, arrestato e torturato dai suoi camerati, condannato a morte e poi esiliato in Belgio, a Liegi, dove è morto nel 2011. Non dimentico quando, nelle manifestazioni di denuncia davanti agli organismi internazionali, chiedeva la parola e dichiarava: «Sono un generale della Repubblica Cilena spogliato della nazionalità da un infame tiranno».

 Quella bella mattina d’estate ad Amburgo uscii dal consolato cileno trasformato in apolide, ma la vita andò avanti lo stesso e anche gli sforzi per far cadere Pinochet. In seguito presi la cittadinanza tedesca, ma sono sempre rimasto in attesa da parte dei governi post-dittatura di un gesto che ponesse riparo all’ingiustizia, perché la costituzione cilena diceva che la nazionalità cilena era irrinunciabile e che nessuno poteva esserne spogliato. Quel gesto però ha tardato trentun anni a giungere.

 Nel mese di aprile di quest’anno, il 2017, ho accompagnato mia moglie Carmen a Madrid, perché doveva sbrigare alcune pratiche al consolato cileno, e cioè richiedere un «certificato di sopravvivenza» che la riconosce come ex prigioniera politica della dittatura e le garantisce alcuni diritti minimi. Io mi sono limitato ad accompagnarla e, mentre ero nella sala d’aspetto, guardavo le belle fotografie del Sud del Cile che decoravano le pareti. Di colpo mi sono trovato davanti un uomo vestito in modo elegante. «Lei è il signor Luis Sepúlveda, lo scrittore?». Ho pensato che fosse un lettore che mi aveva riconosciuto e l’ho salutato con la gentilezza con cui si salutano i lettori. «Mi permetta di stringerle la mano, signor Sepúlveda, è un grande onore e un motivo d’orgoglio per me salutarla. Sono il console cileno di Madrid».

 Mi ha invitato nel suo ufficio, mi ha offerto un caffè, e ho pensato che avrei dovuto ringraziarlo per la sua gentilezza ma che non poteva chiamarmi compatriota, perché io non ero cileno. Mi sono ricordato di certe conversazioni che avevo avuto con un caro amico, adesso ambasciatore del Cile in Italia, e dei suoi «risolviamo tutto alla svelta», a cui però non avevo mai dato molto credito perché erano passati trentun anni da quando mi avevano tolto la cittadinanza. Il console, invece, aveva buone notizie. Appena due settimane prima il governo cileno aveva deciso di porre fine all’ingiustizia.

 La prima cosa che ha fatto il console è stato richiedere online un certificato di nascita, che è arrivato nel giro di pochi minuti e che recitava: nato a Ovalle, in Cile, privo di nazionalità cilena. Subito, sempre online, ha richiesto un altro certificato con applicato il provvedimento di restituzione e stavolta, insieme a luogo e data di nascita, si leggeva: «Nazionalità: cilena». Carmen e io siamo usciti dal consolato e ci siamo messi a passeggiare per Madrid. Anche quella era una mattina molto bella, con l’inconfondibile luce di Madrid che invita al buonumore, ma noi due camminavamo in silenzio. «Ehi, cileno, me lo offri un bicchiere di vino?» ha detto Carmen. «Certo, cilena» ho risposto io. E dopo trentun anni eravamo di nuovo due cileni che camminavano per le strade del mondo.

«Storie ribelli» di Luis Sepúlveda, a cura di Ranieri Polese e traduzione di Ilide Carmignani (Guanda, pp. 180, euro 17)

 

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